La mancanza di Giuseppe D’Avanzo e l’importanza delle parole.

Giuseppe D’Avanzo era un grande giornalista, una sintesi inedita di cronista irriducibile e lucido intellettuale. Giuseppe D’Avanzo ci manca, ci manca ogni giorno di più. Lui non c’è, è vero, ma restano i suoi articoli, definizione assai imprecisa, per difetto, di quello che sul suo giornale andava scrivendo nei suoi quasi quotidiani capolavori di stile. E così, dopo settimane di stridii grillini, abiure e minacce, sconfessioni e diktat, e dopo l’ultima condanna alla gogna mediatica emessa da quel sommo sacerdote del giustizialismo senza e se e senza ma che è Marco Travaglio ai danni del neo-presidente del Senato Pietro Grasso, ieri sera sono andata a rileggermi il primo dei suoi scritti raccolti ne Il guscio vuoto. Metamorfosi di una democrazia, pubblicato da Laterza lo scorso anno. S’intitola “La neolingua del potere”. Scriveva D’Avanzo nell’ottobre del 2008: “(…) Quella lingua, che non riconosce alcuno statuto alla realtà, che riduce drasticamente ogni complessità (anche lessicale), è soltanto una mera tecnica di consenso o custodisce di più: una strategia o addirittura un destino politico?” E più avanti, a proposito dei moduli della neolingua: “Sono aut disgiuntivi: o si è dentro o si è fuori; o si è incondizionatamente amico o incondizionatamente nemico; o si è per il bene o per il male”. Parlava di Berlusconi, allora, ma nel calzare come un guanto alla miseria dei linguaggi politici e mediatici attuali, come non leggere in quelle parole una tragica preveggenza?

Qualcuno ha detto che si muore davvero solo quando nessuno ha più memoria di noi. Forse è il momento, almeno ogni tanto, di ricordarsi di Giuseppe D’Avanzo. Di rileggerlo, soprattutto.

“”LE CHIAVI TUTTE”. CHE VE NE PARE? E’ LO SLOGAN DI UN FERRAMENTA MILANESE.

I FATTI: Stamattina entro in un bar in Città Studi a prendere un caffè. Lo gestiscono due ragazzi, carini, educati, ogni tanto ci passo. Mentre sto cOnsumando arriva una coppia, evidentemente di clienti, età 30 anni. Uno dei baristi tira fuori un biglietto da visita e ammicca al cliente maschio: “Stavo già per telefonare, invece…”. Gira il biglietto della PUBBLICITA’ INGANNEVOLE, e compare l’indirizzo di un ferramenta della zona.
RISATE DEI PRESENTI, COMPRESA L’ALTRA DONNA CHE E’ NEL BAR.
Mi infuribundisco e commento: “Non ci trovo niente da ridere”, esordisco.
SGUARDI SMARRITI DEI PRESENTI. CHE PROPRIO NON CAPISCONO COSA STIA SUCCEDENDO. UNA BATTUTA INNOCUA, CHE MALE C’E’?
Arringo: FARSI PUBBLICITA’ CON UN GIOCO DI PAROLE CHE INVERTENDO I TERMINI ALLUDE ALLA SOLITA INDEFINITA POSSIBILITA’, PER GLI UOMINI, DI AVERE LE DONNE A PROPRIA DISPOSIZIONE, E ALLA SOLITA INDEFINITA DISPONIBILITA’ DELLE DONNE DI DARSI AGLI UOMINI NON E’ AFFATTO INNOCUO. E’ UNO SLOGAN VIOLENTO, OFFENSIVO, E, SOPRATTUTTO PER GLI UOMINI, CONFONDENTE.
INFATTI CE NE SONO UN SACCO IN GIRO ABBASTANZA INCAZZATI. Perché si continuano a costruire falsi immaginari, mentre LE DONNE DELLA REALTA’ DICONO NO TUTTE LE VOLTE CHE VOGLIONO, SANNO SCEGLIERE E RIFIUTARE. Quasi sempre, soprattutto tra i giovani, si rivelano più in gamba, più determinate, più capaci di prendere decisioni. E CHE SMENTISCONO SISTEMATICAMENTE L’ILLUSIONE CHE, ANCHE QUESTO STUPIDISSIMO BIGLIETTINO DA VISITA CONTRIBUISCE A CREARE.
I FATTI: IL BARISTA PRENDE IL BIGLIETTO CON “LE CHIAVI TUTTE” E LO METTE SU UNA MENSOLA, IN BELL’EVIDENZA, APPOGGIATO ALLE BOTTIGLIE. MENTRE ESCO, VENGO RAGGIUNTA DALL’ECO DELLE RISATE.
MORALE: Sono certa di essere passata per una bacchettona, e altrettanto certa che i presenti CONSUMANO battutacce come quella dell’intraprendente pubblicitario-ferramenta ritenendosi più di me LIBERI, MODERNI E CAPACI DI SCHERZARE SENZA MORALISMI. 
E questo equivoco è quel che più mi ferisce, il più pericoloso, il più difficile da sradicare. Almeno fino a quando non si costruirà CON LA STESSA PERVASIVITA’ UNA MENTALITA’, FATTA ANCHE DI REGOLE, DI NORME CHE NORMANO I MESSAGGI PUBBLICITARI E I MESSAGGI TELEVISIVI, CHE RENDERA’ FINALMENTE OVVIO QUEL CHE DICO IO E ODIOSO IL MESSAGGIO DEL FERRAMENTA.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ESCALATION DI FEMMINICID

Sono rientrata due giorni fa da Buenos Aires, dove ho incontrato diverse donne e alcune docenti dell’università Unsam,studiose e femministe argentine. Ero lì per tenere una presentazione de IL SILENZIO DEGLI UOMINI e per un dibattito sul tema del corpo. Due erano gli interessi: l’Italia post-berlusconiana (ma sarà poi proprio così? nel senso del post?), e il femminicidio. Bene, in quello che solo pochi anni fa era considerato un paese del terzo mondo, l’Argentina oggi governata da una donna, Cristina Kirchner, paese cattolico, machista, latino, lo scorso anno in agosto, E’ STATA RAPITA E UCCISA UNA RAGAZZINA, CANDELA, UN FATTO CHE HA SCONVOLTO IL PAESE E DI CUI, ANCORA ADESSO SI PARLA.
CHI RICORDA PIù UN SOLO NOME DI UNA DELLE 126 DONNE UCCISE NEL 2011 IN iTALIA? NESSUNO.
RIENTRANDO, OLTRE AL MACABRO ELENCO DELLE VITTIME DEGLI ULTIMI GIORNI, HO TROVATO SU FB DIVERSI COMMENTI SGRADEVOLI SULL’INIZIATIVA DELLA MINISTRA DI FORNERO DI INCARICARE L’ISTAT DI UN’INDAGINE SPECIFICA SUL FEMMINICIDIO IN ITALIA. Ma come è possibile? No, proprio non sono d’accordo con questo atteggiamento. Se le istituzioni o i loro rappresentanti non fanno niente, giustamente ne denunciamo il silenzio e il disinteresse. Ma appena fanno qualcosa, anche una piccola cosa, certo, non risolutiva, c’è sempre chi è pronta a ridicolizzare e a sminuire. Ora, se in tutti questi mesi terribili, non abbiamo fatto altro che dire e denunciare il non riconoscimento della violenza e della sua escalation come FENOMENO SOCIALE E POLITICO, perché non apprezzare che la ministra Fornero incarichi il massimo organismo di studio sui fenomeni sociali italiani di uno studio approfondito. Dove sarebbe il problema, la mancanza, l’errore?

QUANDO FARE NOMI E’ UNA QUESTIONE DI DEMOCRAZIA

DUNQUE, BERSANI SCRIVE AD ALCUNE ASOCIAZIONI, TRA CUI SNQ, E CHIEDE DI PROPORRE DEI NOMI PER IL CDA RAI: INVIATE I CURRICULA, DICE, E NOI VALUTEREMO. ALLORA? COSA FARA’ SNQ? Perché Bersani ha fatto una cosa giusta, finalmente, ma a me interessa persino di più capire come si muoverà Se non ora quando. Non avendo mai voluto misurarsi con la pratica democratica della rappresentanza, del voto, e non avendo quindi voluto esprimere una direzione, degli organi statutari, una dirigenza e tantomeno una leadership (tranne che poi vige quella carismatica con tutti i problemi che questo comporta), con quali criteri potrebbe fare dei nomi? Chi decide? E a nome di chi? Problemi di non poco conto, mi sembra. E se per una volta invece del solito muro di gomma, ci imbattessimo in una risposta da parte di SNQ su temi a dir poco vitali, sarebbe un’altra bella notizia. Una novità assoluta.

DA “IL SILENZIO DEGLI UOMINI”: SULLA VIOLENZA MASCHILE

Quando le guerre di mafia o di camorra raggiunsero l’acme del terrore, arrivando a fare duecento vittime in un solo anno, si parlò di fenomeno criminale, lo Stato intervenne con misure estreme; e si sparsero fiumi di inchiostro, si scrissero libri, inchieste, reportage, ci furono interrogazioni parlamentari e fiaccolate di intere comunità, ancora oggi all’argomento si dedicano dibattiti e trasmissioni televisive. E allora perché la violenza omicida degli uomini verso le proprie compagne o figlie o amanti non riesce a diventare allo stesso modo una questione urgente, pressante, angosciosa? A interrogare le coscienze? A trasformarsi in un’emergenza?

Nel 2006, sempre stando ai dati del rapporto Eures-Ansa, le donne uccise furono addirittura 181; nel 2008 ne sono state ammazzate 147, e di queste ben 104, il 70,7 per cento del totale, all’interno di contesti familiari. Così che non basta chiedersi perché gli uomini uccidono le donne. La domanda è: perché gli uomini uccidono le donne che amano?

È certo che ci troviamo di fronte a delle costanti che circoscrivono e determinano il fenomeno. Sempre più spesso, quasi immancabilmente, la causa scatenante l’omicidio è un abbandono o una separazione, una messa in crisi del rapporto, un’affermazione di autonomia e di libertà delle vittime. E dunque, quel che muove al crimine è l’incapacità di questi uomini di sopportare la frustrazione del rifiuto, di governare la rabbia e metabolizzare la perdita, addirittura, di vivere l’esperienza stessa del dolore. Ma nessuno, o quasi, si è ancora azzardato ad affermare che ci troviamo davanti a un’inedita questione maschile, tutta da decifrare e comprendere. Vero, le violenze sulle donne ci sono sempre state, delitto passionale e delitto d’onore sino a poche decine di anni fa erano all’ordine del giorno, e proprio per garantire al genere maschile se non impunità assoluta, almeno attenuanti e clemenza, erano una volta reati verso i quali il Codice penale prevedeva indulgenza e comprensione. Ma oggi, più che l’affermazione di una forza e di un dominio, più che frutto di un’idea delle donne come esseri inferiori, più che retaggio di incultura e degrado, questa violenza pare nascere dalla disperata opposizione a un cambiamento femminile, dall’incapacità di accettarlo e comprenderlo; dal panico provocato dalla nuova libertà e autonomia delle donne. Dunque, una violenza che colpisce non chi si ritiene inferiore e subalterna, ma al contrario una donna che sceglie, che decide, che pone problemi e crea conflitti. E che spaventa, perché quanto più cresce la capacità di affermazione femminile tanto più vengono denudate la fragilità o la dipendenza  o l’inadeguatezza maschile.

Di fronte a un inarrestabile cambiamento, il gesto violento diviene l’estremo atto di un potere morente, la resa tirannica dinanzi all’impossibilità di sottomettere, lo sfregio di un’altrimenti incancellabile alterità. La negazione e, insieme, la massima affermazione, della propria vulnerabilità e parzialità. Così che oggi la violenza sulle donne appare il sintomo più drammaticamente eloquente del declino di un genere; l’unico mezzo a disposizione per quegli uomini che credono così di sventare il rischio della perdita.

Quando a uccidere una donna è “lo straniero”

Come si fanno più esatte le parole e appropriata l’analisi del gesto omicida quando a uccidere è uno “straniero”. Per Singhj Kulbir, l’indiano che ha strangolato la giovane moglie incinta di tre mesi in provincia di Piacenza perché “voleva essere occidentale”, nessuno ha parlato di “folle gesto” né di “dramma della gelosia” e tantomeno di “raptus”. Come spiegava ieri sera un compunto carabiniere al Tg3, quell’uomo ha agito per imporre nell’unico modo che gli era ormai consentito, cioè con l’omicidio, un possesso sulla sua donna che gli stava sfuggendo, per impedirle una libertà che altrimenti non avrebbe avuto altro modo di tarpare. Le regole ferree di un dominio che, fuori dal proprio Paese, aveva perduto, si liquefano non appena una donna  smette di riconoscerle.

E Kaur Balwinde, appunto, non le riconosceva più. E’ possibile che a muovere la furia omicida del marito più della rabbia per la nuova Kaur, meno sottomessa, docile e impaurita di un tempo, sia stata la perdita di rispetto della propria comunità, che derideva e disprezzava un uomo incapace di tenere a bada la propria donna. Tuttavia, qualunque fossero gli stati emotivi appena precedenti all’assassinio, è ancora una volta evidente quanto la vana pretesa di sancire un potere indiscutibile (quello di vita e di morte) coincida con l’impotenza di esercitarlo ancora, nel futuro.

Tutto è morente nel mondo maschile, ma non per questo meno furente, prepotente, violento. Come se la decadenza del genere si sovrapponesse alla furia per l’ineluttabilità della perdita, e una sorta di meccanismo autodistruttivo non potesse che indurre all’eccesso e alla dismisura.

Un’ultima postilla a proposito di decadenza di mondi maschili e di quel che resta della loro forza. Oggi gioca la Nazionale di calcio italiana in un’amichevole con il Lussemburgo. Oggi dovrebbe essere il giorno in cui, per la prima volta, in uno stadio, luogo maschile per eccellenza, arriverà la condanna della violenza sulle donne. Sarà un calcio arrivato al suo stadio terminale, per corruzione e caos, a “impegnarsi” prima di ogni altro settore della società per una “causa” che ancora stenta a essere considerata fenomeno ed emergenza sociale. 

Non possiamo non essere almeno perplesse per questa “alleanza” che pure molte di noi hanno ritenuto necessaria, ammettendo che la potenza di penetrazione degli immaginari da parte del calcio è ancora fortissima. Ma la speranza, sempre più tenue, è che oggi, questi “eroi” così poco epici, sgualciti e confusi, quel messaggio lo esprimano con la consapevolezza che è soprattutto a loro che potrebbe dare un pizzico di residua dignità.

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QUEL CHE (NON) AVETE (CAPITO)

 

 

Agli autori, ai conduttori e alla redazione di Quello che (non) ho.

Quello che non avete : è l’idea, il pensiero, meno che mai la convinzione che esistano donne autorevoli e interessanti, intelligenti e talentuose, in grado di venire inviate dalla trasmissione a discutere, parlare e “monologare” quanto gli uomini. E con questo dimostrate (autori e conduttori) di essere invece in possesso di una profonda e immarcescibile misoginia.

QUELLO CHE NON AVETE (CAPITO): è CHE LA MISERIA RAPPRESENTAZIONE

FEMMINILE che avete scelto di dare, ANCHE NELL’ASSENZA delle donne, PRODUCE

MISOGINIA.


QUELLO CHE NON AVETE (CAPITO): è CHE LA VIOLENZA SI NUTRE, E TANTO, ANCHE
DELLA VOSTRA MISOGINIA MEDIATICA.
QUELLO CHE NON AVETE (CAPITO): è CHE LE DONNE SONO LA METà DEL MONDO,
DELL’UMANITà, DELLA CITTADINANZA, E CHE A CHI STA A CUORE LA
DEMOCRAZIA DOVREBBE ESSERE CHIARO CHE TANTO LA MISERIA DELLA
RAPPRESENTAZIONE FEMMINILE QUANTO LA POVERTà DELLA RAPPRESENTANZA
POLITICA RAPPRESENTANO UNA DELLE EMERGENZE DEMOCRATICHE DI QUESTO
PAESE: UN PROBLEMA CHE ATTRAVERSA TUTTI GLI ALTRI.
QUELLO CHE NON AVETE (CAPITO): è CHE SE PURE INVITERETE IN CORNER UNA
DONNA, COME AVETE FATTO IN “VIENI VIA CON ME” ALLA TERZA PUNTATA, QUESTO
VI RENDERA’ ANCORA PIù RIDICOLMENTE COLPEVOLI DI NON ESSERVI RICORDATI
CHE FACENDO UN PICCOLO SFORZO AVRESTE POTUTO OSPITARE GIORNALISTE E
SCRITTRICI, ATTRICI E REGISTE CAPACI DI PENSIERI, DI PAROLE, DI PROPOSTE E DI
ANALISI.
Qui di seguito alcune delle tantissime voci di donne che in rete hanno suggerito quel che
non hanno. Se solo sapeste e voleste ascoltarle.

AnnaMaria Passaggio quello che non ho: una trasmissione con voci di donne.
Manuela Mimosa Ravasio quello che non ho è un palinsesto tutto mio
Manuela Mimosa Ravasio quello che non ho è un altro punto di vista, quello delle donne
Marina Cassani Quello che non ho è la democrazia: non c’è democrazia senza la presenza ( e non la rappresentanza) delle donne
Laura Onofri Quello che non ho è il pensiero delle donne, non perchè non ci sia, anzi è ricco e fecondo, ma perchè la dilagante misoginia le sopprime virtualmente e purtroppo spesso anche fisicamente come lo provano i femminicidi compiuti sino ad oggi
Quello che non ho… il riconoscimento che donna non è un “aggettivo” ma un “sostantivo”… sostanza ed essenza di una persona unica.
Quello che non ho… uomini che sappiano fare spazio alla profondità femminile
… uomini che smettano di circondarsi di donne che per “parlare” debbano nascondersi dietro la maschera della volgarità e della comicità spicciola per poter esprimere il proprio pensiero

Quello che non ho… uomini che capiscano le parole delle donne e che sappiano ascoltarle tacendo su di esse e imparando a parlare del sé nascosto che non vogliono rivelare.
… il rispetto della mia intelligenza da parte di uomini chiusi che non sanno guardare oltre se stessi

Paola Falabretti Quello che non ho..è un po’ più di rispetto
Sabrina Ancarola ‎#QuelloCheNonHo donne in tv, eppure in questo paese siamo il 52%, quanta arretratezza

Paola Falabretti ‎#QuelloCheNonHo è …una legge contro il femminicidio
Commentate qui con una vostra frase e le firme.

I NOSTRI EROI: DEMOCRATICI E MISOGINI

L’Italia democratica è in attesa spasmodica della prima puntata di Quello che (non) ho. L’Italia democratica non necessariamente ama le donne, anzi, talvolta risulta misogina. Ne avevamo avuto ampia prova, dell’Italia insieme democratica e misogina, con Vieni via con me dello scorso anno: eravamo in pieno regime berlusconiano, il programma andava in onda sulla terza rete. Questa volta, nel Paese dei Professori  la vedremo su La Sette, ma i nostri eroi sono ancora Fazio&Saviano, gli autori di nuovo Francesco Piccolo e Michele Serra.

Immaginiamo molte e straordinarie sorprese, tuttavia quel che già conosciamo è l’elenco degli ospiti: Avati, Favino, Lerner, Travaglio, Rossi, Rea, De Luca, i Liftiba, che non sono i componenti di una squadra di calcio, ma autorevolissimi scrittori, giornalisti, intellettuali, e anche musicisti, attori e registi. La monosessualità dell’ambiente balza agli occhi: evidentemente, alle tante brillanti menti che hanno lavorato all’ideazione del programma non è giunto il nome di una donna altrettanto interessante, famosa, brillante e garante di share a due cifre.

Mi correggo: ci saranno la Littizzetto, la quale, ha spiegato alla Gruber Fabio Fazio, testualmente, “ha il compito di alleggerire”, e la brava Alice che, naturalmente, canta, e basta.

Nel Silenzio degli uomini avevo scritto:

Guardo e riguardo nella moviola della memoria quella che certamente è stata, anche, una trasmissione televisiva, ma che ha significato nell’immaginario di milioni di spettatori, per il particolare momento storico, politico e civile che attraversavamo, un vero e proprio evento. Intessuta allo steso modo d’epica e di misoginia. Tanto che non posso fare a meno di domandarmi se i due aspetti non siano inestricabili, necessari l’uno all’altro.

«Vieni via con me» era, nelle intenzioni degli autori, tutti uomini naturalmente, la discesa in campo dei migliori, una parata di intelligenze, di saperi, di sensibilità, di esempi di civiltà. Nello iato ormai esistente tra due Italie, due nazioni, due visioni del mondo, tra contrapposti modi di intendere l’etica e la polis, doveva fornire il racconto della parte migliore. Va da sé che un simile programma avesse bisogno di eroi. Fatale, che nell’acuirsi drammatico di uno scontro antropologico di questa portata si ricorresse all’epica: allora lo studio televisivo diventa un’arena, e gli ospiti, i guerrieri più valorosi di quello schieramento. Così, nella prima e nella seconda puntata di «Vieni via con me» si respirava un’atmosfera festosamente testosteronica da bordo-ring. Nel programma-agone sono scesi gli eroi, quelli buoni, quelli che stavano dalla parte giusta. Sono pronti a battersi per ottime ragioni, ragioni che noi condividiamo. Entrano ed escono star di prima grandezza: Saviano e Benigni, Fazio e Abbado, Englaro e Don Gallo si abbracciano e si baciano, si incoraggiano vicendevolmente con cameratesche pacche sulle spalle. Gli atteggiamenti sono quelli di uno spogliatoio, di un campo da gioco. Gioco maschio, appunto. Fatica e sudore sono le stigmate di qualunque eroe, e nostri eroi mediatici alla fine di ogni esibizione mostrano fronti imperlate e camicie zuppe.

Bisogna attendere la terza settimana perché vengano finalmente invitate due donne pubbliche, Emma Bonino e Susanna Camusso. Prima di loro, le uniche presenze femminili chiamate a leggere i famosi elenchi rappresentano la cosiddetta «gente comune»: una disoccupata, una giovane studentessa, una suora (a sinistra si è sviluppata un contagioso innamoramento per le monache).

A nessuno degli autori passa neppure per la testa che il brutto Paese contro i cui mali si battono e si spendono ha raggiunto questi livelli di ineguagliabile scempio anche perché ha escluso le donne. E così, nei loro gesti di coraggio, nelle battaglie che conducono non è previsto neppure un pensiero per questa assenza, che invece riproducono tal quale, o un cavalleresco gesto di riparazione che colmi il vuoto.

Nell’inasprimento della battaglia ideologica si rinserrano le file, gli eserciti contrapposti si danno battaglia. Si torna alla guerra e alle sue infinite metafore. Cosa c’entrano le donne con tutto questo? Sono in buona fede, gli eroi. Bastano a se stessi.

 Spero con tutto il cuore di non dover fare un copia e incolla domani, dopo aver guardato la prima puntata di Quello che (non) ho

LETTERA APERTA A CESARE PRANDELLI

Caro Prandelli,

come sa la FIGC si è schierata contro la violenza sulle donne, e il 29 maggio prossimo la nazionale italiana nel corso della partita con il Lussemburgo, a Parma, ci aprirà gratuitamente lo stadio, dove campeggerà lo slogan: “La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Insieme possiamo vincere questa partita”.

Il mondo del calcio è sicuramente uno degli ambienti più maschili di un Paese che in quanto a misoginia non scherza, anche questo le è noto, e in tante e tanti abbiamo apprezzato il suo attacco all’omofobia, equiparata al razzismo. Proprio per questa ragione che una campagna di sensibilizzazione sul tema della violenza approdi negli stadi rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale, perché se persino un luogo tradizionalmente impermeabile alle problematiche del mondo reale prende posizione, allora vuol dire che il fenomeno di cui si occupa è divenuto un’emergenza sociale, qualcosa che per tracimare fino a un campo di pallone deve necessariamente portare con sé un grido d’allarme, una richiesta di attenzione che non è più possibile ignorare.

Ma dall’altra parte, è qui sta la straordinaria forza culturale dell’evento, quell’allarme, quella protesta, quella richiesta di ascolto vengono “normalizzati”: se persino il calcio prende posizione contro la violenza sulle donne, allora può diventare opinione diffusa, linguaggio corrente, common sense il ritenere non più sopportabile che in Italia venga ormai uccisa una donna ogni due giorni. E dunque dire basta, giudicare ignobile e intollerabile la mattanza femminile cui stiamo assistendo.

Sono 54 dall’inizio del 2012, caro Prandelli, le donne ammazzate dall’uomo che diceva di amarle: mariti, fidanzati, amanti. Uomini normali, né folli né socialmente pericolosi, solo incapaci di tollerare la frustrazione dell’abbandono, lo smacco della perdita, il dolore che sempre la fine di ogni amore porta con sé. Uomini deboli, questo sì, che uccidono insieme alla donna che credono d’amare, la libertà e la capacità di autodeterminazione che  quella donna ha espresso con la propria scelta.

Chi ama lo sport, ogni sport, anche il calcio, nonostante tutto, sa che nella sua bellezza, nella lealtà dello scontro, nel rispetto dell’avversario, nella poesia del grande gesto atletico c’è quella cosa che si chiama epica. Che non ha niente a che vedere con la violenza, il sopruso, la vigliaccheria di chi usa la forza per schiacciare e non per misurarsi con il traguardo della gara. 

E allora le chiedo, spero insieme alle tante donne che vorranno firmare questa lettera, di farsi promotore per i prossimi europei di calcio di questa campagna contro la violenza sulle donne, scendendo in campo con la nazionale, sempre, a ogni partita, con lo slogan “La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Insieme possiamo vincere questa partita”

Ma insieme davvero, perché un Paese dove vivono male le donne è un brutto Paese, sempre e comunque, anche per gli uomini.

Cordialmente,

Iaia Caputo